Un nuovo modello organizzativo per l’impresa sostenibile

Il termine “sostenibile”, divenuto di moda negli Anni 80, ha avuto un’enorme diffusione tanto da finire per essere spesso banalizzato perdendo le sue connotazioni iniziali. Vale dunque la pena precisarne il significato, i limiti entro cui affrontare le sue finalità e quelle del conseguente “sviluppo sostenibile”.

La definizione è stata formulata nel rapporto Brundtland del 1987 intitolato Our common future (“Il futuro di tutti noi”) proposto dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (Wced), istituita nel 1983 e presieduta dalla politica norvegese Gro Harlem Brundtland: “Lo sviluppo sostenibile è quello che consente alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”.

Quindi un processo di cambiamento che ponga come base il concetto di sostenibilità negli ambiti ambientale, economico e sociale, considerati sistemi di Stato i quali, perseguendo benessere e progresso nell’ecosistema, debbono essere in grado di conservare risorse in favore della posterità ovvero delle generazioni future. Il concetto di “conservazione” richiama anche quello di “resilienza”, cioè capacità dell’ecosistema di recuperare la sua fisionomia iniziale quando venga perturbato per un qualsiasi motivo.

Obiettivi dello sviluppo sostenibile

In realtà, gli obiettivi dello sviluppo sostenibile si sono focalizzati nel contrastare soprattutto l’effetto serra e i conseguenti cambiamenti climatici, dando quindi priorità alla ricerca di energie pulite rinnovabili, fra l’altro intensificando la Green economy e soprattutto cercando di ridurre l’inquinamento ambientale (in particolare da anidride carbonica) mediante il controllo del sistema delle emissioni inquinanti (Emissions trading system, Ets). Su questi problemi l’Unione europea ha avviato possibili soluzioni attribuendo alle quote di emissione valore finanziario attraverso una stima monetaria, così da renderle commerciabili fra Stati sovrani chiamati al rispetto dei vincoli ambientali imposti dal cosiddetto Protocollo di Kyoto.

Si tratta di soluzioni, tuttavia, che finiscono per riproporre una logica di profitto complicando ulteriormente la situazione, come ha messo bene in evidenza il giurista Giovanni Maria Flick (2021) riferendosi anche al Ministero della Transizione Ecologica istituito di recente in Italia. “Più energia dalle fonti rinnovabili come il sole, l’acqua, il vento; un maggiore ricorso all’elettricità, ritenuta un vettore energetico pulito ed efficiente; un abbandono veloce del carbone, graduale del petrolio, più dilungato del metano. Un ruolo ancora interessante per il nucleare. E poi una porta aperta all’idrogeno, elemento per il quale c’è un entusiasmo ricco di speranze, ma povero di certezze. Queste sono le tendenze verso cui vanno l’Italia e anche il mondo, tendenze che si rispecchiano nella strategia climatica europea e in quella italiana, cioè quel Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) che è un’altra delle improbabili sigle con cui i politici sperano di addolcire un percorso tecnologico ed economico che potrebbe essere più aspro delle precedenti transizioni energetiche”: così Jacopo Giliberto ha presentato lo stato attuale delle cose in un suo articolo (2021).

Educare alla sostenibilità

Per quanto riguarda i problemi della sostenibilità ambientale e del relativo sviluppo sostenibile si è dunque concentrata l’attenzione sugli effetti e su come intervenire per limitarne la dannosità. Di nuovo, sono state trascurate le cause e i relativi agenti provocatori. Lo stato di sostenibilità è stato riferito a quattro principali parametri: sostenibilità ambientale, economica e sociale, a cui è stata poi aggiunta la cultura, benché questa sia assolutamente preliminare a ognuno di essi. Peraltro, si cerca anche di definire una possibile misurazione della sostenibilità per poterla gestire in modo più consapevole, il che è problematico essendo arduo individuare quei parametri con precisione e compiutezza.

Il problema è analogo a quello insito nelle attuali ricerche sulla conoscenza e sul sapere per poterle definire con uno o più indici numerici. Già gli illuministi diderottiani avevano tentato una soluzione esponendo una grande sintesi del sapere nella loro Encyclopédie: “Questa parola significa ‘concatenazione delle scienze’ […] Scopo di un’enciclopedia è infatti raccogliere le conoscenze sparse sulla faccia della terra, esporne […] il sistema generale […]”.

La ricerca di una sintesi della conoscenza è stata peraltro perseguita sin dall’antichità con la realizzazione di biblioteche che la scrittrice Marguerite Yourcenar ha definito “granai” del sapere. E Richard Ovenden (2021), bibliotecario presso l’Università di Oxford, così ne scrive: “Uno dei sogni della civiltà occidentale è l’accumulo di tutta la conoscenza in un’unica biblioteca. Questo sogno nasce con il mito della Biblioteca di Alessandria e riprende forza dopo il Rinascimento, con la consapevolezza via via crescente che grazie alle biblioteche le comunità possano riuscire a padroneggiare ogni questione umana o, per lo meno, consultare tutte le opere citate nei testi accademici importanti”.

Oggi quel sogno viene perseguito con l’aiuto delle grandi potenzialità delle tecnologie informatiche e digitali. Esperti del sapere cercano di accompagnare il Pil con un nuovo Prodotto interno del sapere (Pis) ovvero Gross domestic knowledge product (Gdkp), indici che per esempio l’economista italiano Umberto Sulpasso sta cercando di definire attraverso una intensa ricerca commissionata da università statunitensi e dal Governo indiano.

Per intervenire concretamente sui metabolismi inquinanti dell’ecoambiente è necessario educare i soggetti che li gestiscono affinché imparino a praticare la sostenibilità quando operano sia singolarmente sia nelle istituzioni organizzate e nelle città, in modo da rendere il sistema-territorio un’organizzazione guidata verso uno sviluppo sostenibile. È necessario sensibilizzare culturalmente gli esseri umani attivando in loro una coscienza critica ed etica focalizzata appunto sulle responsabilità relative a questi nuovi, ma di fatto antichi problemi.

Ed è per l’appunto necessario intervenire in forme dirette sui singoli operatori sia nelle loro funzioni imprenditoriali sia come protagonisti della vita urbana. Diventa anche necessario capire bene quale deve essere nel territorio il ruolo di imprese e città, così da meglio definire gli interventi atti a contenere gli effetti del degrado ambientale provocato da uno sviluppo che non sempre è da considerarsi sostenibile.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Maggio-Giugno 2021 della rivista Sviluppo&Organizzazione.
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Gianfranco Dioguardi

Professore Ordinario di Ingegneria Gestionale presso il Politecnico di Bari e Presidente Onorario di Fondazione Dioguardi


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