Violenza sulle donne, ripartire dalle nuove generazioni
Filippo Turetta, l’omicida di Giulia Cecchettin, compirà 22 anni il 18 dicembre 2023. A dividerci c’è un anno d’età, il destino della nostra esistenza e poco altro. Giulia 22 anni già li aveva e per sempre li avrà, privata di tutte le possibilità che la vita avrebbe potuto darle dall’atto feroce di Turetta. Questo femminicidio cade, con un tempismo che non fa più notizia, a ridosso della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, il 25 novembre, e si manifesta ai nostri occhi come l’espressione più totale di un modello culturale fondato sull’oppressione fisica, psicologica e sociale della donna. Un modello nel quale tutti nuotiamo, come un tossico liquido amniotico che, sin dalla nascita, ci traferisce l’idea per cui l’uomo deve ma dominare sulla donna al suo fianco, deve essere più forte, più razionale e più ricco, deve avere più successo ed essere più libero, deve avere più potere. Tutto il resto è eresia, atti di sovversione da soffocare a ogni costo.
Nell’azione di Turetta c’è la gelida consapevolezza di dover proteggere, agendo all’interno di un rapporto sociale privato, tutti i privilegi, le aspettative e di doveri maschili che la laurea di Giulia avrebbe messo in dubbio. Un conseguimento personale che avrebbe rappresentato un insopportabile grado di emancipazione e indipendenza, un’autonoma dichiarazione d’esistenza. La donna si tramuta quindi in un prolungamento dell’uomo che esiste solo in funzione di questo, un’estensione da recidere se dolorosa o non confacente ai programmi e ai ruoli sociali. A fronte di questo rapporto di forza, non vi è donna che possa emanciparsi e potenziarsi senza essere punita. Per riformare questo modello è fondamentale, in primo piano, il ruolo del contesto familiare, ambiente all’interno del quale bambini e bambine formano la loro primaria identità e acquisiscono un’iniziale percezione del mondo e della propria presenza al suo interno. È responsabilità dei genitori insegnare il rispetto e la rinuncia al predominio con fermezza, nelle parole e nei fatti. Parallelamente, la scuola deve appropriarsi di una dimensione più umana e sociale, insegnando ai giovani a relazionarsi e a vivere i rapporti con la donna in modo sano e basato sulla reciprocità, rinunciando a ogni forma di controllo. Non per ultimo, lo Stato deve intervenire sul piano normativo, ma solo come conseguenza a un preventivo, reale impegno (finora non pervenuto) a cambiare le basi culturali.
Il passaggio più significativo, però, risiede nella messa in pratica della consapevolezza delle nuove generazioni: il dibattito sul tema, intanto, deve permeare le relazioni tra coetanei e indirizzare scelte e azioni, uscendo dalla dinamica cannibalistica dei media che attiva le nostre coscienze a intermittenza. Nella mia esperienza, i miei coetanei stanno assumendo una maggiore sensibilità proattiva verso queste tematiche, se non altro per il fatto che la nostra identità sociale, ancora in fase di consolidamento, ci spinge a una reazione più drastica di fronte alle violenze e ai femminicidi. L’indipendenza, la crescita umana e, magari, il maggior successo delle donne con cui condividiamo parte della nostra esistenza, quindi, deve essere fattore di mutua valorizzazione, non di invidia a prevaricazione; riteniamoci fortunati se la nostra partner guadagna o guadagnerà più di noi, e smettiamo di pensare al nostro ruolo all’interno del contesto casalingo come di supporto al lavoro femminile, occuparsi di faccende di casa per l’uomo non deve essere una notizia. Il compagno condivide un progetto di vita all’interno del quale è compresa la gestione della famiglia e dell’abitazione, avremo fatto un passo avanti quando sarà naturale smettere di parlarne come un fatto da segnalare e quando noi smetteremo di rivendicarlo come se stessimo compiendo atti eccezionali. In caso questo passaggio culturale si riveli (e così è) più faticoso del previsto, è nostro obbligo notare, non accettare e denunciare le disparità e le violenze perpetrate dei nostri coetanei, perché il modo in cui i nostri amici o conoscenti trattano le loro compagne ci riguarda direttamente, il resto è complice omertà. Il silenzio non è un’opzione. Il rumore femminile è emancipazione e sopravvivenza, quello maschile è dovere. Perché se la responsabilità giuridica e morale di un omicidio non è condivisa, a esserlo è la colpevolezza dell’ignavia se non, ancora peggio, la volontà di mantenere i propri privilegi, l’”Io non ho mai toccato una donna” non è più abbastanza. Dall’altro lato, la rabbia delle donne non deve portare al “tu che sei uomo non mi parlare di femminicidi”, perché la confessione della colpa parte dalla sua amissione, e il cambiamento parte dalla voce che, per prima, si leva nell’assordante silenzio.
Laureato in Comunicazione e Società presso l’Università degli Studi di Milano, Alessandro Gastaldi ha iniziato il suo percorso all’interno della stampa quasi per caso, già durante gli anni in facoltà. Dopo una prima esperienza nel mondo della cronaca locale, è entrato in ESTE dove si occupa di impresa, tecnologia e Risorse Umane, applicando una lettura sociologica ai temi e tentando, invano, di evitare quella politica. Dedica il suo tempo libero allo sport, alla musica e alla montagna.
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